
Vivian Maier: fotografare il mondo, guardarsi dentro5 minuti di lettura
Cosa sappiamo con certezza di Vivian Maier? Cosa ci rimane di lei? Tata-fotografa, la non-fotografa di successo, la bambinaia, Mary Poppins. Cosciente del suo talento o inconsapevole del suo dono?
Al di là dei più svariati tentativi di definirla e di ritrarla, la sua produzione conta più di centomila negativi, un archivio che documenta la sua attività a New York (1951-1956), Chicago (1956-2009) e nei numerosi luoghi – mete di sospirati viaggi – tra cui la Francia, in memoria del periodo vissuto durante l’infanzia e dove ancora persistono le tracce di lei forse più a fuoco.
Tutti sono stati tentati di raccontare quali fossero le tappe fondamentali della vita di questa donna, Vivian, pur senza trovare fonti di un’identità precisa. Ad oggi non c’è nessun profilo perfetto. La sua esistenza ci ha lasciato il conforto di sapere che per qualcuno è più importante poter guardare il mondo con i propri occhi, che imporsi nel mondo.

Un’arte portata alla luce
Quello stesso mondo non l’avrebbe mai conosciuta se nel 2007 John Maloof non avesse comprato all’asta, per soli 380 dollari, il contenuto di un box. La precedente proprietaria era proprio Vivian Maier e Maloof ritrovò, tra fogli, ritagli di giornale, oggetti ed effetti personali, centinaia di negativi mai sviluppati. Ignaro del tesoro acquisito, ma deciso a scoprirne di più, il giovane ha cominciato a condividere i suoi ritrovamenti su Flickr e a comprenderne il potenziale. Maloof ha iniziato a ricostruire la figura di Vivian attraverso le persone che l’hanno conosciuta in vita: i bambini che lei aveva cresciuto, ormai adulti, i datori di lavoro, ormai anziani.
La ricerca e la promozione dell’opera di Vivian da allora non si sono più fermate. Musei e gallerie hanno voluto raccontare ciò che è stata come essere umano e come fotografa. Ci sembra che la Maier, come oggi la conosciamo, sia stata creata, ricomposta tassello dopo tassello da chi si è appropriato delle sue immagini e ne ha voluto dare una forma coerente per poterla mettere in “mostra”. Nata a New York nel 1926, non ha mai avuto alcun interesse di farsi conoscere e riconoscere, di condividere con altri quello sguardo insondabile, tipico di uno spirito taciturno.

Il ritratto di sé
Vivian faceva la bambinaia per poter fotografare, in modo sistemico e instancabile, come a soddisfare un bisogno primario, alla stregua di ogni grande artista. Inseparabile dalla sua Rolleiflex, attraversava il quotidiano e ne tratteneva le esistenze, le presenze e gli abbandoni. Si accostava a quel che solitamente non si osserva e che per la maggior parte delle persone non ha nessuna importanza, ciò che in un incessante accadere, sembra non accada. E invece viene catturato proprio lì, dall’ obbiettivo.
Gesti, ma anche fogli di giornale, mani, sole o intrecciate come le anime a cui appartengono, piedi, ombre delle cose e cose nell’ombra.
Definita raccoglitrice-collezionista dalla curatrice Anne Morlin (in Vivian Maier. Inedita, Ed. Skira, 2022), Vivian esercitava un linguaggio chiaro e autentico, generato dall’esperienza del reale. Questa esperienza comprendeva le strade della metropoli con i suoi uomini d’affari e le sue donne elegantissime, ma anche le abitudini dell’infanzia, sia per via della sua professione, sia perché le risultava impossibile rimanere indifferente di fronte alle piccole mani appese alle gonne, agli occhi sgranati, alle lacrime sulle guance piene, alle ginocchia sbucciate e agli sguardi ancora sognanti, puri.

“Non sorrido. Non piango. Io assorbo”
Si riassume così l’essenza di questa donna fotografa inafferrabile, perchè così lei stessa sembra costantemente definirsi. Il ricordo di chi l’ha conosciuta la voleva severa, impenetrabile e solitaria; mentre nei suoi autoritratti lei sembrava voler trovare di più e per questo si guardava, si indagava, cercava di catturare la sua identità, di collocarsi nel mondo che osservava continuamente e sempre più a fondo.
Si è ritratta innumerevoli volte, nitida o evanescente, sulle vetrine della Fifth Avenue, guardandosi allo specchio, attraverso una finestra, con un’ombra sull’erba o su un muro scrostato. Una sagoma presente, ma ancora incerta di ciò che poteva essere o diventare. Nei frammenti di vetro rotti o sopra le vetrine dei negozi, rallentava e fissava la sua figura, quel suo stare al mondo così singolare ed attento.
Oggi tentiamo di riunire gli indizi per definirne il carattere, ciò che l’ha resa Vivian Maier e così ha fatto lei, dando prove inconfutabili della sua esistenza sulla terra con lo strumento che più conosceva, l’unico da cui non poteva nascondersi: la macchina fotografica.


