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Rethinking Nature, la collettiva internazionale al Madre di Napoli6 minuti di lettura

Fino al 5 giugno sarà possibile visitare la grande mostra collettiva “Rethinking Nature” allestita al Madre, il museo d’arte contemporanea Donnaregina, di Napoli. La curatrice Kathryn Weir, con la collaborazione di Ilaria Conti, ha raccolto più di 50 opere – tra cui 15 nuove produzioni in anteprima internazionale – realizzate da oltre 40 artisti e collettivi provenienti da 22 paesi.

Il nuovo format proposto di mostra concepito come piattaforma multidisciplinare, apre le porte ad una esperienza completamente inedita. Fruizione estetica, conoscenza e coscienza si legano indissolubilmente in un percorso che evidenzia il progresso, le sue conseguenze e la crisi di un intero sistema; da qui si schiude la possibilità di un recupero della dimensione ancestrale del nostro stare sul pianeta.

Il contributo dell’arte per un cambiamento radicale

Il progetto di Rethinking Nature lancia un richiamo alla comunità artistica internazionale; la interroga sull’emergenza ecologica, riguardo alle cause e alle conseguenze di tipo ambientale, sociale e politico che ne sono implicate. Gli artisti rispondono all’appello con vocabolari creativi sperimentali, focalizzazioni e media necessariamente diversificati.

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T. Walsh, The Yearning, 2021
Installazione a muro realizzata con pittura acrilica, carta e realtà aumentata
L’opera di fiction si propone come riflessione sul legame che intercorre tra uomo e natura attraverso le mediazioni della tecnologia e delle sostanze psicotrope, quindi realtà virtuale e antidepressivi distribuiti dalle case farmaceutiche.

Gli effetti della crisi climatica si manifestano in modo sempre più preoccupante; riscaldamento globale, innalzamento dei mari, estinzione di specie e perdita di ecosistemi, elementi di tossicità nell’aria, sono fenomeni che non possono più essere ignorati. In questa esposizione gli artisti illuminano la radice problematica scatenante: un sistema economico e un modello culturale capitalistici volti unicamente allo sfruttamento, siano queste risorse naturali o umane.

Le diverse installazioni denunciano quindi l’urgenza di ripensare i fondamenti etici della nostra presenza e prendere coscienza della complessità di un mondo globalizzato. Questo per impegnarsi a produrre forme alternative di conoscenza e pratica sociale, applicando i fondamenti di una nuova ecologia politica e costruendo rapporti interpersonali e intercomunitari basati su valori differenti da quelli attuali.

Il sistema economico globale e i danni ambientali

Lo spazio espositivo prende inizialmente vita con opere che riflettono sulla visione imperialista della natura. Il Karrabing Film Collective attraverso installazioni video, anche a due canali, e mappature sovrapposte che sintetizzano gli ultimi secoli di storia, invita a una riflessione sulla colonizzazione tutt’ora in corso. Il mondo è coinvolto in tutta la sua estensione, dall’Europa all’Australia. Weather Reports svela come la visione coloniale perfezioni la propria cartografia e distrugga l’ambiente; Mermaids, Mirror Worlds, Same same, separate separate e Beds are Burning mostrano con un linguaggio perturbante l’espropriazione identitaria delle comunità indigene, futuri distopici caratterizzati da tossicità industriale e razzismo scientifico.

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Karrabing Film Collective, Weather Reports, 2021
Grafite, carta, pastello acquerellabile, acrilico, stampe

Anche i lavori di Giorgio Andreotta Calò, Adrián Balseca, Elena Mazzi hanno come tema lo sfruttamento delle risorse naturali da parte di governi e multinazionali. Infatti, attraverso nuovi sguardi e significazioni, carotaggi, gomma, plastica, immagini in bianco e nero, denunciano la scomparsa di ecosistemi, l’impoverimento dei territori, l’abuso del lavoro e l’ingabbiamento sociale.

Il recupero di una spiritualità arcaica

Responsabilità collettiva e pratiche agricole etiche sono le parole chiave degli artisti di Gianfranco Baruchello, Tabita Rezaire & Amacaba (Guiana francese), mentre la proiezione di AmaHubo (foto di copertina) dischiude le porte della spiritualità.

La ricerca di artisti come Buhlebezwe Siwani si muove infatti sulle tracce di pratiche spirituali e forme di conoscenza arcaiche sopravvissute alla colonizzazione. In questo caso le protagoniste sono un gruppo di donne del Sudafrica; esse creano uno spazio sacro e narrativo attraverso il linguaggio performativo del corpo, della danza. Vengono rievocati elementi identitari, come l’Ibutho, cintura di lana indossata dai capi spirituali zulu, il legame con la terra e le costrizioni subite da parte dell’ Inghilterra.

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Edgar Heap of Birds, Defended Sacred Mountains, 2018
Yasmin Smith, Terra dei fuochi, 2021
Ivano Troisi, Cova, 2021
Sandra Monterroso, Expoliada II, 2016

Allo stesso modo Sandra Monterroso fa rivivere, attraverso Expoliada II, alcune forme di pensiero materiale della comunità Q’eqchi, uno dei gruppi linguistici del Guatemala. La sua creazione testimonia il profondo valore simbolico del giallo nella cosmologia maya e l’importanza della tessitura come strumento di trasmissione spirituale (nonché metafora di relazioni interculturali possibili e di quelle perdute). Ancora, Edgar Heap of Birds realizza monostampe che rappresentano spazi di denuncia politica e resilienza culturale. Infatti Defended Sacred Mountains rintraccia i luoghi di rito e guarigione delle popolazioni originarie, sulle montagne degli Stati Uniti.

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Zina Saro-Wiwa, Karikpo Pipeline, 2015-2021
Installazione video a cinque canali

Narrazioni arcaiche, maschere simbolo di misteri, forze sprigionate dalla natura stessa, dalle rocce, dall’acqua, dagli animali: questi elementi sono il motore anche dell’opera di Zina Saro-Wiwa. Con l’opera video Karikpo Pipeline, girato nell’Ogoniland (Delta del Niger), l’artista mette in atto una performance dove danzatori con maschere di antilope intagliate evocano energie spirituali in una distesa di oleodotti di Shell Oil.

Per accedere alle lezioni della terra e per combattere dobbiamo essere fermi. Dobbiamo ascoltare e dobbiamo essere un canale per la terra. Noi come esseri umani sopravvalutiamo la nostra importanza. Quindi per me, un ambientalismo del Delta del Niger deve implicare ecosistemi invisibili. È tempo di decolonizzare l’ambientalismo, non solo dalle potenze coloniali ma dall’umanità in generale.

Dichiarazione dell’artista

Natura ed Eros

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Zheng Bo, Pteridophilia 2, 2018
Zheng Bo, Fern as Method, 2021

Tra le diverse tipologie di connessioni uomo-natura che vengono esplorate, recuperate e ripensate, quella maggiormente impattante viene proposta da Zheng Bo. In una serie di film di cui fa parte Pterodophilia 2 vengono immaginate nuove relazioni queer tra piante e persone; nel video infatti un uomo mangia una felce ed è sessualmente coinvolto nell’atto. L’installazione è inoltre accompagnata da un altro filmato in cui si documentano atti di pseudocopulazione tra insetti e piante, e lo spazio della sala è riempito da felci e fogli di carta. L’invito rivolto al visitatore è quello di instaurare una connessione con le piante attraverso il disegno; questi poi vengono usati come fertilizzante per le felci stesse, chiudendo il cerchio di un flusso armonico tra eros e fecondità interspecie.

Diplomata in conservatorio, laureata in lettere, amo le pagine consumate, le gallerie d'arte e le poltroncine dei teatri. Posso però garantire di essere anche una persona simpatica.