
Oldboy al cinema: dopo 16 anni torna la tragedia della vendetta8 minuti di lettura
Oldboy, del regista sudcoreano Park Chan-wook, torna al cinema dopo 16 anni dalla prima uscita: la “tragedia della vendetta” sarà in versione completamente restaurata.
Il film distribuito in Corea nel 2003, l’anno successivo ha vinto il Premio Speciale della critica al Festival di Cannes, suscitando l’ammirazione anche di Tarantino, che lo ha definito “il film che avrei voluto fare”.
In effetti, la pellicola ha da subito ricevuto un’accoglienza positiva dalla critica, diventando capolavoro del cinema sudcoreano e, negli anni successivi, un vero e proprio cult.
Tratto dall’omonimo manga di Nabuaki Minegishi e Garon Tsuchiya, insieme a Mr. Vendetta (2002) e Lady Vendetta (2005) fa parte della cosiddetta “trilogia della vendetta”: film in cui Chan-wook si ispira appunto al sentimento della vendetta.
Attenzione! L’articolo contiene spoiler sulla trama del film.
Oldboy: storia di vendetta e destini incrociati
Oh Dae-su (Choi Min-sik) viene arrestato per disturbo della quiete pubblica e ubriachezza molesta, successivamente rilasciato dalla polizia, viene rapito. È il giorno del quarto compleanno di sua figlia. È il 1988.
Al risveglio si ritrova in una cella arredata come una squallida stanza, con tutto il necessario per sopravvivere – un letto, un bagno e una tv; unica compagnia nelle giornate monotone e unico contatto con la realtà esterna che intanto cambia.
Inizia così un terribile periodo di prigionia e torture psicologiche. Un trauma, questo, che lo cambia fisicamente e mentalmente.
Dae-su è continuamente spinto al limite, logorato dalla situazione e incapace di comprendere perché sta subendo tutto ciò. Tenta di suicidarsi due volte, ma in entrambi i casi viene salvato.
La fuga è impossibile. Per non impazzire decide di ripercorrere la propria vita scrivendo una sorta di autobiografia e di allenarsi, così da diventare forte e un giorno riuscire a vendicarsi dei propri rapitori.

La vendetta di Dae-su
Improvvisamente, dopo 15 anni, Dae-su viene liberato senza alcuna spiegazione. Sembrerebbe finalmente tutto finito, ma in realtà il suo rapitore sta ancora giocando con lui e infatti riesce a contattarlo per lanciargli una sfida: Dae-su ha cinque giorni per trovarlo, scoprire la sua identità e i motivi per cui l’ha rapito; dopo di che il misterioso uomo sparirà per sempre.
La voglia e la necessità di capire si intrecciano con la sete di vendetta di Dae-su: vuole trovare il suo rapitore e fargliela pagare per tutto quello che gli ha fatto. Inizia così una spirale di violenza che logora i personaggi, travolge tutti e porta a un finale inaspettato e sconvolgente.
La storia di Dae-su, però, si intreccia con quella di Mi-do (Kang Hye-jeong), giovane cuoca di un ristorante che salva Dae-su e lo porta a casa sua dopo che egli stava per soffocare. Tra i due nasce subito una forte attrazione fisica, che consumeranno in seguito, e la donna decide di aiutare il protagonista.
Dopo varie indagini riescono a risalire al palazzo dove Dae-su è stato imprigionato. Lì egli dà sfogo a tutta la sua rabbia, frustrazione e desiderio di vendetta in un susseguirsi di scene rapide, crude e violente.
Infine, riesce a scoprire che il palazzo è in realtà una struttura creata appositamente per tener recluse persone dietro pagamento e che colui che ha commissionato il suo rapimento è un ricco uomo d’affari, Lee Woo-jin (Yoo Ji-tae).

La vendetta di Woo-jin
Woo-jin è un vecchio compagno di liceo di Dae-su, la cui sorella si era suicidata dopo aver ricevuto la fama di “ragazza facile”.
Ed è proprio a causa di Dae-su se ella aveva quella reputazione: egli infatti, un giorno, l’aveva vista in atteggiamenti intimi con un ragazzo (il fratello stesso), ne aveva parlato con un amico e presto la voce si era diffusa. La ragazza si era persino convinta di essere incinta e così aveva deciso di gettarsi da una diga.
Sembrerebbe tutto chiaro: Woo-jin ha voluto rinchiudere, torturare e far soffrire Dae-su per vendicarsi; ma c’è un ulteriore ed enorme colpo di scena.
L’uomo d’affari rivela che sia Dae-su che Mi-do sono stati manipolati tramite ipnosi e agopuntura affinché si innamorassero. Lei in realtà è sua figlia.
È questa la vera vendetta di Woo-jin, pianificata nei minimi dettagli e di una specularità perfetta rispetto al peccato di Dae-su. La sua punizione non sono stati i 15 anni di prigionia, la vera punizione inizia ora. Woo-jin vuole fargli provare lo stesso dolore, la stessa vergogna e disperazione, la stessa straziante sofferenza causate da una relazione incestuosa. Vuole che Dae-su provi quello che lui e la sorella hanno provato.
È interessante notare questo duplice aspetto nel comportamento di Woo-jin: egli sta sicuramente cercando di vendicarsi. Allo stesso tempo cerca anche di rendere Dae-su uguale a sé e vuole che egli soffra per il suo stesso peccato. Potrebbe dunque esserci, dietro al suo piano, anche il bisogno di empatia e di qualcuno che comprenda la sua situazione? Sembrerebbe che egli cerchi qualcuno con cui condividere i propri sentimenti e il proprio dolore, e lo cerca proprio in colui che ne è stato la causa primaria.
Sorridi, e il mondo sorriderà con te.
Piangi, e piangerai da solo.
Dae-su
Oldboy pone al pubblico un grande quesito etico. Di solito è facile prendere le difese della vittima ed empatizzare con la sua situazione. Cosa succede, però, quando i ruoli di vittima e carnefice non sono più così definiti? Quando le relazioni di cause ed effetto si attorcigliano e le azioni di uno diventano motivazioni dell’agire dell’altro?
Forse il regista vuole dirci che è impossibile essere completamente buoni o completamente cattivi; che tutti, con le nostre azioni, spesso sconsiderate e fatte senza riflettere troppo, siamo la causa dei dolori di altri. E forse va bene così, ma a patto di esserne consapevoli e assumersi le responsabilità delle proprie scelte.
Può esserci pace nella vendetta?
Dopo aver scoperto la tremenda verità, Dae-su supplica Woo-jin di non rivelare ad altri il segreto, si umilia, si rende suo servo, arrivando anche a tagliarsi la lingua per provare la propria fedeltà. Woo-jin, divertito da tutto ciò e soddisfatto, decide di porre fine alla sua vendetta e lasciare liberi Dae-su e Mi-do.
Dopo l’iniziale appagamento però viene colto dallo sconforto per tutto il dolore provato e per il triste destino della sorella. Ormai non ha più uno scopo nella vita. Ha passato gli anni a elaborare un piano perfetto, ha aspettato con pazienza che le sue pedine fossero pronte e al posto giusto, ma, ottenuto ciò che tanto bramava, gli resta solo un vuoto.
Te lo ripeto, vendicarsi fa bene alla salute.
Ma che succede una volta che ti sei vendicato?
Scommetto che il dolore tornerà a cercarti.
Lee Woo-jin
Alla fine, Dae-su decide di ricorrere all’ipnosi per dimenticare la verità. Ha scoperto quello che voleva, ha unito tutti i fili, ma ora non può sopportare il peso delle proprie azioni. La conoscenza non l’ha reso libero né tantomeno salvato.
Nella scena finale egli si riunisce con Mi-do che gli rivela il suo amore. Dae-su sorride ma subito dopo una smorfia di dolore nasce sul suo volto. È davvero possibile dimenticare?

Oldboy e il genere tragico
Oldboy è una storia di vendette, ma anche di destini diversi che si incrociano, di azioni che hanno conseguenza che al momento non si possono comprendere e di ricerca di verità e consapevolezza.
Tutti questi elementi creano un legame con il genere tragico e, in particolare, con un testo: l’Edipo Re di Sofocle.
I più grandi dolori sono quelli di cui noi stessi siamo la causa.
Sofocle, Edipo Re
Per chi conosce il testo greco, il tema dell’incesto è il collegamento più ovvio, ma anche il più superficiale, perciò, non ne parleremo oltre.
Piu interessante notare che il film si apre con il protagonista che dichiara il proprio nome alla centrale di polizia: secondo il regista stesso Oh Dae-su avrebbe un’assonanza con Οιδίπους (Edipo in greco) e ne sarebbe una trasposizione.
In realtà, è l’intera struttura delle due opere a seguire il medesimo schema. Si inizia da una situazione di difficoltà (la peste in Edipo Re, la prigionia in Oldboy) e si passa alla ricerca del colpevole.
In entrambi i casi, però, chi sta cercando non sa di essere egli stesso il colpevole e la causa dei mali. Non c’è consapevolezza e così la ricerca avvicina il protagonista al proprio destino infausto. La verità non è liberatoria, ma, al contrario, porta la distruzione.
Si potrebbe poi prendere in considerazione il concetto di hamartia – spiegato da Aristotele nella Poetica – e che è alla base di tutte le tragedie greche. Si tratta della causa, la colpa commessa dall’eroe, che dà origine a tutti gli eventi.
È quello che Dae-su vuole scoprire scrivendo la sua autobiografia in cella ripercorrendo tutti i torti che avrebbe potuto fare. È l’errore che causa il suo rapimento, le torture e tutto il dolore.
Ciò che cambia è il destino finale dei due protagonisti, o meglio, il modo in cui decidono di affrontarlo. Entrambi decidono di auto-mutilarsi (Edipo si acceca, Dae-su si taglia la lingua) dopo aver scoperto la verità. Tuttavia, l’eroe greco accetta il proprio fato e le conseguenze delle proprie terribili azioni: decide di esiliarsi dalla propria città e proprio per questo troverà riscatto e riabilitazione altrove.
Dae-su invece vuole dimenticare, non vuole elaborare il proprio trauma, non vuole sopportare; preferisce continuare a vivere inconsapevole e felice. Questo è quello che spera ma la scena finale sembra suggerire altro.
Sebbene io sappia essere peggio di una bestia, non crede che abbia anch’io il diritto di vivere?
Oh Dae-su

