
Nomadland: storia di sacrificio, devozione e orgoglio7 minuti di lettura
Dopo l’anteprima mondiale dell’11 settembre 2020 presso la 77ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove si aggiudica il Leone d’oro, alla fine del mese di aprile 2021 esce nelle sale cinematografiche italiane il film di Chloé Zhao, Nomadland.
Vincitore dei premi per la migliore regia e miglior film agli Oscar 2021 e, tra gli altri, dei premi per il miglior film drammatico e miglior regia ai Golden Globe 2021, ottiene anche il plauso della critica internazionale.
Prima di entrare nel merito della storia e dei protagonisti, potrebbe essere utile soffermarsi sugli aspetti ‘paratestuali’, di contesto, per i quali questa pellicola è nota.
Per quanto riguarda i premi Oscar, le edizioni del biennio 2020-2021 si distinguono dalle precedenti non solo perché travolte dalle difficoltà organizzative causate dalla pandemia di COVID-19, ma anche per le vittorie eccezionali riportate: nel 2020 Parasite di Bong Joon-ho vince il premio come miglior film ed è la prima volta nella storia degli Oscar che ciò accade per un film in lingua non inglese; così nel 2021 Chloe Zhao diventa la seconda donna nella storia degli Oscar a vincere il premio per la miglior regia.
Nomadland e i contrasti di genere
Oggi si parla di Nomadland ponendo in primo piano il motivo del trionfo femminile, del trionfo di una donna non caucasica, ma asiatica; la regista è di Pechino, ma avendo compiuto gli studi più importanti in Paesi occidentali, in Europa prima e negli Stati Uniti poi, si può dire che abbia acquisito i fondamenti della cultura occidentale, affinando inoltre la sua sensibilità dei confronti di alcuni aspetti della società statunitense.
Numerose discussioni sulla pellicola si svolgono in funzione del tema dell’emancipazione, dell’empowerment femminile e ciò talvolta può comportare una complessiva svalutazione della produzione.
Nomadland invece racchiude in sé le risorse espressive necessarie per invertire il senso di marcia, per fare in modo che, eventualmente, le discussioni intorno al tema dei contrasti di genere si svolgano in funzione di quelle sul film e non il contrario.
E Nomadland parla di molto altro.
Nel cuore del film di Zhao
In apertura uno schermo nero su cui compaiono alcune didascalie che forniscono le coordinate spaziali e temporali della storia, accoglie lo spettatore fornendogli già alcuni elementi stilistici ed espressivi che contraddistinguono il film: il silenzio e i rumori ambientali.
I fatti si svolgono poco dopo il 2011, nel pieno della Crisi, della ‘Grande Depressione’ economica che dal 2008 investì gli Stati Uniti prima e l’Europa sulla sua scia; la fabbrica di cartongesso della città di Empire, nello Stato del Nevada, chiude dopo 88 anni di attività, ma l’aspetto a dir poco sorprendente è la conseguente chiusura del Codice di Avviamento Postale (zip code negli Stati Uniti) della città.
L’azienda fallisce, la città di Empire scompare e l’esistenza quotidiana dei suoi abitanti è inevitabilmente troncata.

La protagonista di nome Fern (Frances McDormand) è alle prese con la sistemazione di alcuni oggetti personali conservati all’interno di un garage in mezzo al nulla del deserto del Nevada. Il racconto della storia prende avvio da un taglio netto con il passato. Qualcosa nella vita di questa donna è cambiato per sempre e il racconto filmico, pian piano, lo mostra.
Fern inizia a vivere la sua nuova vita per strada, spostandosi per mezzo di un furgone allestito come se fosse una casa. I motivi di questa sua decisione sono in parte noti, ma qualcosa di nascosto, di ancora non rivelato rimane da scoprire.
Vandwelling, il nomadismo targato USA

Nel frattempo la donna conosce numerose persone che come lei conducono lo stile di vita del Vandwelling, una forma di nomadismo moderno segnato dalla mancanza di una fissa dimora; vi sono aspetti comuni fra tutti i ‘vandwellers’, ovvero la necessità di spostarsi continuamente, di svolgere attività lavorative saltuarie e stagionali e di imparare le tecniche fondamentali per la manutenzione dei furgoni.
Negli Stati Uniti, legalmente, i vandwellers sono considerati dei senzatetto e, sempre legalmente, vi sono città, vaste aree o addirittura interi Stati in cui è consentito alle persone vivere nei furgoni e sostare nei parcheggi pubblici.

Fern sembra adattarsi a questo stile di vita nomade, appare sicura delle potenzialità del suo furgone a cui dà il nome di ‘Vanguard’, (avanguardia in italiano) e si presta a svolgere qualsiasi lavoro riesca a trovare, ma rimane sempre in disparte, autoescludendosi da qualsiasi occasione di socialità le si presenti.
Non teme il giudizio altrui e sa come giustificare la scelta di questa nuova vita; infatti quando le viene chiesto se è diventata una senzatetto, lei risponde risoluta che non è una senzatetto, ma è priva di una casa fissa. In lingua inglese questo dialogo, giocando sulle differenze semantiche tra le parole «homeless» e «houseless», risulta evidentemente più significativo:
«My mum said that you are homeless, is that true?»
«No, I’m not homeless, I’m… houseless», «It’s not the same thing, right?»
«No»
Senza casa si, ma non senza l’idea della casa, del focolare domestico che emotivamente fa parte di ognuno di noi e che Fern ricrea all’interno del furgone.

La regia di Zhao segue con attenzione quasi cerimoniosa le più piccole imprese quotidiane di Fern; i movimenti di macchina sono eleganti e pazienti nell’intento di documentare, temendo di perderlo, ogni minimo aspetto.
Ai campi lunghissimi dei deserti del Nevada e dell’Arizona si alternano i primi piani di Fern il cui sguardo è sempre rivolto all’orizzonte, oltre l’inquadratura, verso qualcosa che, forse, è racchiuso dentro di lei e che fuori le manca.
A tali inquadrature corrispondono i suoni ambientali per i quali, il deserto, funge da cassa di risonanza espressiva; non meno importante è il montaggio sonoro che sulla musica di pianoforte extradiegetica di Einaudi contribuisce ad ampliare quel vuoto emotivo che Fern pare voler esprimere.

Nomadland offre all’inizio dei suoi 108 minuti un’inquadratura con un campo lunghissimo del furgone di Fern al centro circondato dal deserto e alla fine, simmetricamente, si vede la sola protagonista in campo lunghissimo, senza il furgone, attraversare il medesimo deserto.

Qualcosa infatti è accaduto nel corso della storia, qualcosa che non solo consente di sollevare delle critiche su una condizione sociale altamente problematica negli Stati Uniti, ma anche di riflettere sul sacrificio che un individuo può compiere per mantenere vivo dentro di sé il ricordo di chi è stato amato.

