
Dislpaced: le fotografie di Mosse al Mast di Bologna9 minuti di lettura
Displaced, mostra dedicata alle fotografie di Richard Mosse, è visitabile fino al 19 settembre presso Fondazione Mast a Bologna.
Curata da Urs Stahel, la mostra è la prima antologica del fotografo e artista irlandese e ne ripercorre la carriera a partire dai primi lavori, prodotti agli inizi degli anni 2000, fino ad arrivare a quelli più recenti.
Tutte le opere esposte si concentrano su tre temi, interconnessi e dipendenti tra di loro: conflitto, migrazione e cambiamento climatico.
Le prime opere: fotografare i conflitti
Il percorso espositivo prende avvio dai primi lavori dell’artista, databili agli inizi degli anni 2000, quando Mosse inizia a occuparsi di fotografia.
Gli scatti sono fatti in diversi luoghi scenario di guerre e conflitti – Striscia di Gaza, Iraq, Bosnia, Kosovo ma anche il confine tra Messico e USA. Questi primi tentativi sono ancora caratterizzati da una dimensione documentaristica e si inseriscono nel filone della fotografia di cronaca. Lo scopo di Mosse è testimoniare quanto accaduto ed esporre determinate situazioni politiche e sociali.
Tuttavia, egli rinuncia a catturare gli eventi direttamente; non si trova mai in prima linea o sul luogo di una battaglia. Fin da subito appare più interessato a immortalare gli effetti del conflitto, a mostrare le conseguenze e quello che resta dopo, inserendosi nel filone dell’aftermath photography (fotografia dell’indomani).
Mosse si concentra quindi su oggetti, situazioni e atmosfere, che diventano simbolo e allegoria.
Così, ad esempio, le vedute dell’Aeroporto Internazionale Arafat, in Palestina, distrutto dalle forze israeliane dopo solo tre anni dalla costruzione, evoca in modo chiaro e forte l’occupazione e l’oppressione che Israele esercita a danno dei palestinesi.

O ancora, gli oggetti personali abbandonati lungo il confine tra Messico e Stati Uniti testimoniano la disperazione dei migranti in cerca di condizioni di vita migliori.
Una menzione speciale meritano le fotografie della serie Breach (2009), incentrate sull’occupazione dei palazzi usati da Saddam Hussein da parte dell’esercito americano dopo l’invasione dell’Iraq. Queste foto, infatti, sono le uniche in cui si registra la presenza di figure umane. Sono i soldati americani, fotografati in un clima di relativa calma, ormai vincitori della battaglia; intorno a loro le architetture e i paesaggi iracheni.

Infra e la svolta da fotografia ad arte
Con la serie Infra Mosse si muove verso l’arte concettuale, indagando il suo legame con la fotografia documentaria.
Le fotografie appartenenti a questa serie sono state scattate tra il 2010 e il 2011 nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, in particolare nel Kivu Nord, zona in cui viene estratto il coltan (un minerale tossico largamente usato nell’industria elettronica).
Il paese avrebbe le risorse e le potenzialità per essere uno dei più influenti del continente africano, tuttavia la sua storia è stata segnata da continui conflitti: dominazioni coloniali da parte di portoghesi, olandesi e britannici, il cruento regno di Leopoldo II del Belgio, il genocidio in Ruanda e gli ancora attuali scontri tra fazioni e gruppi armati.
È proprio questa situazione di costante emergenza quella che Mosse vuole mostrare. Egli fotografa paesaggi, ribelli, soldati, raduni, ma anche i civili e le loro precarie abitazioni, pronte per essere abbandonate in caso di fuga.

Il fil rouge che collega i lavori di Infra da un punto di vista formale è il colore, che deriva direttamente dalla tecnologia che il fotografo decide di usare. Per questi scatti, infatti, si avvale di una speciale pellicola militare da ricognizione – la Kodak Aerochrome – che riesce a distinguere la clorofilla presente nella vegetazione e trasformare il colore verde in magenta.

Ne risultano paesaggi surreali e quasi onirici, in cui la lussureggiante vegetazione congolese diventa un’immensa distesa dai toni rossi e rosa.
Allo stesso tempo, il colore rosso rimanda inevitabilmente al sangue e alla brutalità dei conflitti dando alle fotografie un’aura inquietante e quasi opprimente.


Heat maps: le mappe delle migrazioni
Heat Maps indaga il fenomeno delle migrazioni di massa, riflette sulla condizione dei migranti e sulla crisi dei governi europei difronte a questa emergenza. La serie è stata realizzata tra il 2016 e il 2017 in diversi campi profughi europei e lungo le rotte migratorie verso l’Europa.
Di nuovo Mosse si avvale di una tecnologia militare per raggiungere l’effetto desiderato. In questo caso si tratta di una termocamera capace di registrare le differenze di calore.
Come nella serie fotografica precedente, l’artista estrapola le tecnologie militari dal loro contesto di uso originario – di controllo e avvistamento – e le utilizza per mettere sotto i riflettori le conseguenze e i drammi delle guerre.

La termocamera, infatti, usata fin dai tempi della guerra in Corea, è in grado di vedere fino a molti chilometri di distanza fornendo immagini (apparentemente) nitide. In realtà, solo i contorni degli elementi sono ben riconoscibili ma ogni particolare viene cancellato.
I volti dei migranti, in questo modo, non sono più riconoscibili. Essi sono uomini generici ma senza individualità.
Mosse decide di utilizzare questa tecnologia proprio per questo motivo. Vuole simboleggiare e raffigurare le condizioni disumanizzanti dei migranti, allo stesso tempo invisibili e un grande problema per i governi. Gli stessi, questi ultimi, che sembrano interessarsi ai migranti come categoria astratta, dimenticando che si parla invece di persone in carne e ossa.
Dalla contrapposizione tra mezzo utilizzato (una tecnologia che ha come obiettivo identificare le persone) e il risultato finale (una fotografia in cui gli individui restano anonimi) nasce il senso di straniamento a cui puntava l’artista.
Un ulteriore caratteristica della termocamera, che influenza profondamente l’esito finale delle fotografie, è la mancanza di grandangolo e perciò l’impossibilità di scattare panoramiche. Le fotografie esposte che ritraggono visioni dall’alto dei campi profughi, infatti, sono state create accostando tra loro numerosi scatti diversi. Ne deriva una mancanza di profondità, che richiama alla mente le mappe antiche incise o disegnate.

Ultra e Tristes Tropiques: fotografie del cambiamento climatico
Le ultime due serie sono incentrate sul tema del cambiamento climatico. Entrambe scattate nella foresta pluviale brasiliana, si pongono in contrapposizione tra loro e mostrano due aspetti opposti della foresta.
Da una parte abbiamo le fotografie di Ultra, primi piani della vegetazione rigogliosa, potente e selvaggia. Sono foto scattate avvalendosi di una torci a luce ultravioletta che dona alle piante riflessi violacei, verdi, iridescenti e metallici.

Dall’altra parte ci sono gli scatti di Tristes Tropiques che, invece, documentano la distruzione della stessa foresta. Distruzione causata dall’uomo, dalla sua cieca brama di sfruttare la natura senza limite e dalle sue attività (allevamento intensivo, deforestazione, estrazione incontrollata di minerali).


Videoinstallazioni: l’ispirazione della mostra e un monito per chi guarda
Il percorso espositivo si conclude con tre videoinstallazioni. The Enclave (40′) e Incoming (52′) che vanno ad approfondire rispettivamente il lavoro di Infra e Heat Maps.
Il video Quick (13′) è invece una narrazione fatta da Mosse stesso sul proprio percorso.
Attraverso la sua narrazione i visitatori riescono a cogliere il nesso esistente tra azione umana, distruzione della natura, cambiamento climatico e i conseguenti conflitti e flussi migratori.
Si lascia questa mostra con emozioni contrastanti. Certamente le fotografie esposte con i loro colori brillanti e la particolare resa dei soggetti ci riempiono di stupore e meraviglia. Tuttavia, i temi trattati e il modo in cui Mosse decide di affrontarli fanno nascere anche un senso di inquietudine e una maggiore consapevolezza del nostro impatto sul mondo.

