
Grace di Jeff Buckley: storia di un album che ha segnato gli anni Novanta7 minuti di lettura
Grace di Jeff Buckley è un album che non piace a tutti. Sarà per l’elevato tasso emozionale concentrato in 10 tracce, per la spiritualità che emana, o forse per la raffinatezza degli arrangiamenti, fatto sta che non è di immediata comprensione.
Un disco difficile da catalogare, nel quale si percepiscono le influenze musicali a tutto campo del cantante, dal rock al blues, dal folk al jazz, dal grunge al soul, tanto che Rolling Stone lo definì “a metà strada tra metallo e angeli”.
A dispetto della tiepida accoglienza del pubblico, Grace di Jeff Buckley raccolse il consenso unanime da parte della critica e non solo. Personaggi del calibro di David Bowie, Bob Dylan, Jimmy Page e Robert Plant non persero l’occasione di esprimere pubblicamente il loro apprezzamento nei confronti del talentuoso statunitense.
Una stima contraccambiata, dato che il musicista adorava i Led Zeppelin, suoi idoli fin da ragazzino. Pare che Whole Lotta Love fu l’ultima canzone canticchiata prima di sparire inghiottito dalle acque del Wolf River la sera del 29 maggio del 1997.
Grace: una voce fuori dall’ordinario

Ciò che emerge da Grace di Jeff Buckley, e che mette d’accordo tutti, è l’esplosiva e angelica voce del cantante, dotato di un’estensione vocale fuori dall’ordinario. Versatile, capace di cambiare continuamente registro, il cantautore si muove tra sussurri, falsetti e urla con una grazia e una naturalezza disarmanti.
Ma i virtuosismi tecnici in questo caso non sono pura accademia, e i testi poetici toccano le corde emotive di chi è all’ascolto. Il suo stile interpretativo e compositivo, così personale, ha influenzato diversi artisti contemporanei, dai Muse a Lana del Rey, dai Radiohead ai Coldplay.
La genesi di Grace
Grace di Jeff Buckley, prodotto da Andy Wallace, fu pubblicato negli Stati Uniti il 23 agosto del 1994 dall’etichetta Columbia Records. Le tempistiche della registrazione in studio, iniziata nel settembre dell’anno precedente, si dilatarono principalmente per due ragioni.
In primo luogo, la band fu assemblata dallo stesso cantautore solo poche settimane prima dell’inizio delle sessioni. Dunque il processo creativo iniziò a dare i suoi frutti quando i componenti ebbero modo di conoscersi entrando in sintonia.
La formazione iniziale vide gli ingressi del bassista Mick Grondahl e del batterista Matt Johnson, ai quali successivamente si unì il chitarrista Michael Tighe, coautore del brano So Real. Inoltre Buckley richiamò l’ex compagno dei Gods & Monsters, Gary Lucas, il cui contributo risultò fondamentale. Infatti fu lui a comporre i passaggi strumentali per chitarra di quelli che poi sarebbero diventati Mojo Pin e Grace, rispettivamente la traccia di apertura e la title track.
In secondo luogo il perfezionismo del musicista prese il sopravvento. Così per ciascuna canzone venne sperimentata una quantità pressoché infinita di arrangiamenti, parti vocali e strumentali. Quindi l’artista si ritrovò con il delicato compito di cristallizzare la versione definitiva da incidere.
Quattro brani tratti da Grace
A cura di Beatrice Curti
Grace, l’unico album in studio di Jeff Buckley preceduto dall’EP Live at Sin-é, è composto da 10 canzoni, 7 delle quali portano la sua firma. Le restanti sono le cover di Lilac Wine, Corpus Christi Carol e la celeberrima Hallelujah.
Abbiamo scelto di raccontare quattro brani tra i più significativi dell’album, per trasmettere la capacità incredibile di questo cantautore, scomparso troppo presto, di raccontare con trasporto ed espressività i tormenti dell’animo umano.
Lover, You Should’ve Come Over
“It’s never over, my kingdom for a kiss upon her shoulder
It’s never over, all my riches for her smiles when I sleep so soft against her
It’s never over, all my blood for the sweetness of her laughter
It’s never over, she is the tear that hangs inside my soul forever“.
La canzone è ispirata alla fine della relazione tra Buckley e la sua ragazza dell’epoca, Rebecca Moore. Il testo racconta la frustrazione di un giovane uomo che si lascia alle spalle atteggiamenti che sente di aver superato troppo tardi, forse a causa del suo legame di dipendenza con la donna che ama e che non è più con lui. Il critico e biografo David Browne lo ha definito un brano “confuso e che confonde“, ammantato di “languida bellezza“.
Dream Brother
“Don’t be like the one who made me so old
Don’t be like the one who left behind his name
Cause they’re waiting for you like I waited for mine
And nobody ever came”.
Il brano è molto intimista, e scava nella dolorosa storia di Jeff Buckley. Il pezzo è stato scritto insieme al bassista Mick Grøndahl e al batterista Matt Johnson e si rivolge a un loro amico, Chris Dowd, pregandolo di non abbandonare la sua ragazza incinta, così come aveva fatto il cantautore Tim Buckley, padre di Jeff. A questo si riferiscono le parole del testo riportate sopra.
A proposito del brano, Jeff Buckley scrisse:
“È una canzone su un mio amico, che ha condotto una vita piuttosto eccessiva… è nei guai. Questa canzone è per lui. So a cosa può portare l’autodistruzione, e ho cercato di avvertirlo. Ma io sono un grande ipocrita, perché quando l’ho chiamato e gli ho detto della canzone che avevo scritto, quella stessa notte ho preso un’overdose da hashish e mi sono svegliato il giorno dopo sentendomi terribile. È molto difficile non cedere ai propri sentimenti negativi. La vita è un tale caos.“
Mojo Pin
“I’m lying in my bed
The blanket is warm
This body will never be
Safe from harm
Still feel your hair
Black ribbons of coal
Touch my skin
To keep me whole
Oh…if only you’d come back to me
If you laid at my side
Wouldn’t need no Mojo Pin
To keep me satisfied”.
La canzone, già inserita nell’album Live at Sin-é, racconta il sogno di una donna. Il testo racconta di una dipendenza, sia riferita alle droghe che a una persona. Lo stesso Buckley racconta che il titolo della canzone si riferisce proprio a quell’atteggiamento autodistruttivo per cui una persona si aggrappa ad un’altra talmente tanto da voler essere quella persona. “inizi a guardare i suoi programmi televisivi preferiti tutta la notte, inizi a comprarle le cose di cui ha bisogno, inizi a bere i suoi drink, inizi a fumare le sue sigarette cattive, cominci a prendere il suo modo di parlare… questo si chiama Mojo Pin“
Grace
“And she weeps on my arm
Walking to the bright lights in sorrow
Oh drink a bit of wine
We both might go tomorrow
Oh my love
And the rain is falling
I believe my time has come
It reminds me of the pain
I might leave
Leave behind”.
La canzone si basa su un pezzo strumentale chiamato Rise Up to Be, scritto da Gary Lucas, collaboratore di Buckley. Le parole si ispirano a un giorno in cui il cantante accompagnò la sua findanzata all’aeroporto, salutandola sotto la pioggia. In un’intervista ha raccontato che il sentimento che guida la canzone è lo stato di grazia in cui ci si trova quando si ama e si è amati, dove niente importa più salvo il sentimento fortissimo e la felicità che ci stordisce.
Il brano che dà il titolo all’unico album di Jeff Buckley somma le sue doti vocali così peculiari a un arrangiamento che accompagna e arricchisce il crescendo della canzone, fino alla catarsi che chiude il brano, lasciando l’ascoltatore quasi sfinito dall’esperienza, come nell’estasi dopo un orgasmo.

