
Giorgio Gaber e il suo grido più forte: “Io se fossi Dio”11 minuti di lettura
Anche Google ce lo ricorda: oggi, 25 gennaio Giorgio Gaber avrebbe compiuto 83 anni. La sua produzione musicale è tra le più variegate e complesse del panorama italiano, con un inizio votato alla canzone leggera tipica degli anni Sessanta, per poi diventare pioniere del teatro canzone insieme a quella che viene chiamata “la scuola di Milano”, contrapposta alla più celebre “scuola genovese“.
Negli ultimi 20 anni della sua carriera Giorgio Gaber decise di fare della canzone e del teatro un vero e proprio manifesto politico, con forti critiche alla società del suo tempo e alla classe politica dell’epoca. Brani come La libertà del 1973 erano preludi a testi più aspri e impegnati, come Qualcuno era comunista e Io se fossi Dio, forse il grido di indignazione più forte di Gaber, scritto in un’epoca tragica della storia italiana.
Io se fossi Dio: terrorismo, religione, politica

Il brano Io se fossi Dio appare come singolo, pubblicato su un 33 giri inciso da un lato solo, nel novembre del 1980. Non si tratta di un anno come gli altri, ma l’ultimo tragico capitolo di quelli che vengono chiamati “gli anni di piombo”, un periodo di tensione, stragi e oscure manovre politiche durato oltre un decennio e che aveva distrutto la fiducia degli italiani nelle istituzioni e soprattutto verso la classe politica.
L’epoca delle stragi terroristiche si conclude con la più terribile: la bomba alla stazione di Bologna, esplosa nell’agosto 1980 nella sala di attesa di seconda classe. L’ordigno farà crollare parte della stazione e ucciderà brutalmente 85 persone. Ai funerali delle vittime i politici verranno insultati e fischiati da una Bologna straziata e da un’Italia disgustata da una Repubblica fondata sulle menzogne.
Il 1980 però non fu solo l’anno di Bologna: ad aggiungersi al dramma del terrorismo anche la strage di Ustica, un mistero ancora oggi irrisolto che costerà la vita agli 81 passeggeri del volo Itavia IH870. A chiudere questo anno terrificante ci pensò il terremoto in Irpinia, con la durissima accusa del presidente della Repubblica Sandro Pertini verso i mancati soccorsi (“Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi” commentò quando visitò la zona il 25 novembre 1980, due giorni dopo il sisma) e i successivi scandali sul furto dei soldi per la ricostruzione.
In questo clima di rabbia e frustrazione Giorgio Gaber scriverà il testo della canzone, ispirata al sonetto satirico di Cecco Angiolieri S’i’ fosse foco. Inizialmente il brano doveva far parte dell’album Pressione bassa, ma la casa discografica lo respinse, temendo di dover ritirare dal mercato l’LP a causa della reazione del pubblico o peggio, il ritiro da parte della censura.
Di cosa parla Io se fossi Dio?
Abbiamo cercato di dipingere il quadro storico in cui questa canzone feroce è stata scritta, in collaborazione con Sandro Luporini, scrittore di Viareggio incontrato da Gaber negli anni Settanta. Il testo è fitto, scritto senza metrica, quasi uno sfogo.
La canzone dura 14 minuti, un tempo che la rende praticamente impossibile da passare per radio. Non importa: così come non importa un arrangiamento “facile”. Gaber e Luporini contattano Sergio Farina per gli arrangiamenti, rendendola una canzone adatta al teatro, con un grande comparto di musicisti, composto da 24 elementi.
Nelle parole di fuoco della canzone c’è posto per tutti, dalla politica alla religione all’indolenza borghese fino al terrorismo e ai quegli uomini diventati martiri, i cui peccati sono stati cancellati dalla loro fine orrenda.
Gaber immagina cosa farebbe se si potesse sostituire a Dio, guardando dall’alto la cloaca che era diventata l’Italia, affacciata sul baratro degli anni Ottanta. Ogni strofa punta l’occhio di bue delle luci teatrali sopra i meschini abitanti della Terra:
Per esempio, il piccolo borghese, com’è noioso
Non commette mai i peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso
Del resto, poverino, è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è più esatto di una Sweda
Lui pensa che l’errore piccolino non lo conti o non lo veda
Per questo io se fossi Dio preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si odiava, e poi si amava, e si ammazzava il nemico.
Il borghese vive con ignavia, non si fa toccare da ciò che accade, non si espone alla brutalità del mondo. Sopravvive come uno scarafaggio, con peccati veniali e miserabili, convinto di non essere visto e risultare irreprensibile agli occhi di Dio e della società.
Io se fossi Dio maledirei davvero i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non son brave persone e dove cogli, cogli sempre bene
Compagni giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare delle libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare
Ma quello non lo fate e in cambio pretendete la libertà di scrivere
E di fotografare
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questa Italia piena di sgomento come siete coraggiosi
Voi che vi buttate senza tremare un momento
Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima in primo piano.
Si vabbè lo ammetto la scomparsa dei fogli e della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione della democrazia.
In questa strofa attacca i giornalisti, mostri necrofili che si nutrono del sangue del morto sulla strada e della paura della gente. Il reporter cerca la fotografia d’effetto, il racconto da libro Cuore e la narrazione di una politica pulita e vicina alla gente. Certo, rinunciare alla stampa è folle, ma davanti allo stupro della libertà di informazione Dio sicuramente non avrebbe paura della “superstizione della democrazia”.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente
Nel Regno dei Cieli non vorrei ministri e gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso come la lebbra e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco c’hanno certe facce che a vederli fanno schifo
Che siano untuosi democristiani o grigi compagni del piccì
Son nati proprio brutti o perlomeno tutti finiscono cosìIo se fossi Dio dall’alto del mio trono vedrei che la politica è un mestiere come un altro
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo e sempre più coglione
E’ un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole anche quando non sembra, o non lo vuole.Compagno radicale
La parola compagno non so chi te l’ha data ma in fondo ti sta bene
Tanto ormai è squalificata
Compagno radicale
Cavalcatore di ogni tigre, uomo furbino
Ti muovi proprio bene in questo gran casino
E mentre da una parte si spara un po’ a casaccio
E dall’altra si riempiono le galere di gente che non c’entra un cazzo
Compagno radicale
Tu occupati pure di diritti civili e di idiozia che fa democrazia
E preparaci pure un altro referendum questa volta per sapere
Dov’è che i cani devono pisciare.Compagni socialisti
Ma sì anche voi insinuanti astuti e tondi
Compagni socialisti
Con le vostre spensierate alleanze
Di destra, di sinistra, di centro
Coi vostri uomini aggiornati
Nuovi di fuori e vecchi di dentro
Compagni socialisti
Fatevi avanti che questo è l’anno del garofano rosso e dei soli nascenti
Fatevi avanti col mito del progresso e con la vostra schifosa ambiguità
Ringraziate la dilagante imbecillità.
Nel mirino delle strofe più dure è ovviamente il mondo politico, che Gaber mostra come una massa isterica e contagiosa di lebbrosi, che siano essi democristiani, radicali o socialisti. Il germe della mala politica si insinua dappertutto e nessuno ne resta escluso. Le parole denunciano una politica vecchia e stanca, che gira a vuoto su simboli e parole che non significano più niente. Con oltre dieci anni di anticipo Gaber prevedeva il crollo della Prima Repubblica, un cancro di corruzione e slogan ormai spenti.
Però se fossi Dio sarei anche invulnerabile e perfetto
Allora non avrei paura affatto
Così potrei gridare, griderei senza ritegno
Che è una porcheria che i brigatisti militanti siano arrivati dritti alla pazzia.
Ecco la differenza che c’è tra noi e gli innominabili
Di noi posso parlare perché so chi siamo
E forse facciamo più schifo che spavento
Di fronte al terrorismo e a chi si uccide c’è solo lo sgomento.Ma io se fossi Dio non mi farei fregare da questo sgomento
E nei confronti dei politicanti sarei severo come all’inizio
Perché a Dio i martiri non gli hanno fatto mai cambiar giudizio
E se al mio Dio che ancora si accalora gli fa rabbia chi spara
Gli fa anche rabbia il fatto che un politico qualunque
Se gli ha sparato un brigatista diventa l’unico statistaIo se fossi Dio
Quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio
C’avrei ancora il coraggio di continuare a dire che Aldo Moro
Insieme a tutta la Democrazia Cristiana
È il responsabile maggiore di vent’anni di cancrena italiana.
Io se fossi Dio
Un Dio incosciente, enormemente saggio
Avrei anche il coraggio di andare dritto in galera
Ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora quella faccia che era.
La parte più violenta del testo mette in luce una tendenza nata negli anni delle stragi e delle bombe. Se a Dio fa rabbia e orrore chi spara e mette le bombe, fa anche schifo vedere elevato a statista il politico colpito dal brigatista. Se inizialmente l’accusa al personaggio sembrava velata da un semplice riferimento, nelle strofe successive il nome viene fatto due volte a chiare lettere: Aldo Moro.
Rapito e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, Aldo Moro ha subito nel tempo un processo di beatificazione nel racconto politico e popolare, riferendosi a lui come grande statista cattolico, simbolo del martirio della buona politica sull’altare del terrorismo. Gaber nei panni di Dio non ha certo paura di fare nomi, urlando con rabbia che Moro insieme alla DC è responsabile della cancrena del Paese, e la sua morte violenta non cambia certo l’uomo politico che era.
Furono soprattutto queste strofe, scritte ad appena due anni dalla morte di Moro, che misero la canzone nel mirino della censura. Le copie del “1/2 LP” vennero cercate nelle sedi delle radio indipendenti e ritirate, tanto da diventare un pezzo raro sul mercato dei collezionisti.
E allora.. va a finire che se fossi Dio
Io mi ritirerei in campagna
Come ho fatto io.
La canzone finisce così, con una scrollata di spalle su una rabbia che non riesce ad avere applicazione pratica sull’Italia che prosegue la sua lenta e patetica marcia fino agli anni Novanta e al crollo della politica del tempo, con gli scandali di corruzione di Mani Pulite.
L’edizione del 1991
Nel 1991 Gaber poterà nei suoi spettacoli a teatro una nuova versione della canzone, allungata di due nuove strofe dedicate alle storture avvenute nei dieci anni successivi alla prima stesura. La versione del 1991 non verrà mai messa su disco, ma suonata solo a teatro. I due nuovi punti si rivolgono alla mafia, vera piaga dell’Italia degli anni Novanta.
mostran sorridenti le maschere di cera
e sembran tutti contro la sporca macchia nera
non c’è neanche uno che non ci sia invischiato perché la macchia nera…
la macchia nera è lo Stato
Il soggetto sono i politici, che a parole si mostrano tutti contro “la macchia nera” della mafia, mentre in realtà ne sono parte integrante. Sono gli anni delle stragi di mafia, del Maxiprocesso e delle accuse a Giulio Andreotti per associazione mafiosa. Non manca però una stilettata anche al mondo della giustizia:
Signori magistrati
un tempo così schivi e riservati
ed ora con la smania di essere popolari
come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
di metter persino la mamma in galera
per la vostra carriera
Il riferimento è all’eclatante caso Enzo Tortora. Il famoso presentatore tv era stato indicato da dei pentiti di mafia come parte dell’organizzazione, ma dopo ben 271 giorni di carcere e una condanna a dieci anni per associazione mafiosa Tortora si rivelò completamente innocente. Le indagini erano state svolte in modo grossolano e approssimativo, aiutate da un circo mediatico terribile nei confronti del presentatore, che morirà nel 1988 dopo essere ritornato al suo programma di Rai1 Portobello solo per pochi mesi. Per la storia completa vi lasciamo l’ottimo video del divulgatore GioPizzi.
Questa strofa particolarmente polemica con la magistratura verrà modificata o omessa durante i concerti successivi al 1992, anno in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi dalla mafia.
Io, se fossi Dio è una canzone che varia, adattandosi ai tempi e alle storture dell’umanità, arricchendosi di significato a ogni replica. L’interpretazione carica di passione e rabbia di Gaber raccoglie il senso di frustrazione e impotenza di un uomo che osserva il mondo allo sbando, senza poter fare nulla, privo del potere di un Dio vendicativo, da Vecchio Testamento, che non lascia spazio al perdono.

