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Arte,  News

Travels with Herodotus: una mostra sull’arte africana alla Galleria Bianconi7 minuti di lettura

Galleria Bianconi a Milano ospita, fino al 19 settembre, la mostra “Travels with Herodotus. A journey through African cultures”, curata da Domenico de Chirico.

Si tratta di una mostra collettiva in cui sono presenti le opere (alcune esposte per la prima volta in Italia) di sei artisti di diverse generazioni e provenienti da diversi paesi africani: Gerald Chukwuma (Nigeria 1973), Jeremy Demester (France 1988), Ameh Egwuh (Nigeria 1996), Troy Makaza (Zimbabwe 1994), Boris Nzebo (Gabon 1979), e Monsieur Zohore (USA 1993).

Il riferimento a Erodoto, considerato “padre della storiografia” e da molti primo antropologo, suggerisce come interpretare questa mostra e vuole richiamare il metodo di indagine utilizzato dal greco, ossia una “esposizione della ricerca”.

Il percorso espositivo è pensato per essere un’immersione e un viaggio esplorativo tra le diverse forme espressive dell’arte contemporanea africana. Il visitatore passa da un’opera all’altra in modo armonico, senza contrapposizioni forzate o eccessive. Tuttavia, la mostra riesce comunque ad affrontare tematiche ampie e diverse, spaziando da questioni di natura socio-economica a questioni intime e personali. Il tutto collegato dal fil rouge delle tradizioni culturali africane.

Africa politica e sociale

Così, ad esempio, in Enfants soldats Boris Nzebo denuncia la violenza che i bambini soldato sono costretti a subire: sequestrati, abusati, addestrati e fatti diventare strumenti di morte per mantenere lo statu quo.

Simbolo di questa denuncia, e in realtà elemento ricorrente nelle opere dell’artista, sono le grandi teste e le capigliature, che diventano il pretesto per parlare di disuguaglianze e ingiustizie.

Nzebo è originario del Camerun, paese in cui le varie acconciature possiedono un’importanza fondamentale. Esse rispecchiano le abitudini morali, i comportamenti, ma anche l’identità stessa del singolo e della collettività.

Impossibile non pensare alle fotografie di Zanele Muholi – intrise di attivismo politico e sociale – che ritraggono persone della comunità LGBTQ+ del Sudafrica e in cui le acconciature giocano spesso un ruolo primario

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Boris Nzebo, Enfants soldats (2018), Galleria Bianconi

Una medesima critica sociale si ritrova in Visceral, part 2 di Troy Makaza. L’opera è composta da un intreccio di fili in silicone dai colori intensi, che creano una forma che si staglia con potenza e quasi aggressività davanti al visitatore, richiamando una certa idea di mascolinità. Allo stesso tempo, però, è qualcosa di fluido e malleabile, che fa riferimento a tecniche – tessitura e ceramica – tipicamente femminili.

I fili e gli intrecci diventano metafore dei rapporti tra sessi nello Zimbabwe contemporaneo, degli spazi intimi e delle trasformazioni che i ruoli abituali stanno subendo. Si genera allora una sfida alle vecchie generazioni, a tutto il panorama socio-culturale, al sistema tradizionale profondamente patriarcale, al dominio religioso e coloniale.

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Troy Makaza, Visceral, part 2 (2019), Galleria Bianconi

Elementi tradizionali e culturali africani

Un altro elemento che percorre la mostra è il continuo richiamo a simboli e pratiche tradizionali.

In After Gerald Chukwuma richiama simboli delle tradizioni Uli e Nsibidi (sistemi di simboli o proto-scrittura sviluppati in quella che oggi sarebbe la Nigeria meridionale) ed elementi della danza nigeriana Ikwokirikwo per creare quella che lui stesso definisce “orchestra visiva”.

Assi di legno annerite e dipinte con colori sgargianti, pezzi di alluminio ricavati da lattine di bibite o schede telefoniche vanno a formare le due figure, soggetto dell’opera.

In generale, con le sue opere, Chukwuma vuole sottolineare l’importanza di creatività e libertà di espressione come antidoto e resistenza all’indottrinamento e al potere dominante che vorrebbe cancellare la storia.

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Gerald Chukwuma, After (2020), Galleria Bianconi

L’uso di richiami a elementi tradizionale è presente anche nelle due opere di Ameh Egwuh presenti in gallerie: Quick pic e My cat, a book and my imaginations.

Si tratta di due tele, entrambe raffiguranti delle figure, in questo caso femminili, solitarie e isolate in un ambiente domestico. La mancanza di un volto, e quindi di identità, contribuisce ad aumentare il senso di desolazione e solitudine.

L’ambiente in cui sono poste le figure è costruito tramite il susseguirsi di patterns geometrici e linee (che, in realtà, sono presenti anche nelle figure). Essi si ispirano direttamente alla pratica della scarificazione – l’incisione su pelle – usata in molte parti dell’Africa come momento centrale di riti di passaggio ed elemento che segnala l’appartenenza a una data comunità.

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Ameh Egwuh, Quick pic (2021), Galleria Bianconi

Ricordi, esperienze e arte

La prima opera su cui cade l’occhio entrando alla mostra è Djemy di Jeremy Demester: una lingua d’oro che esce dal muro e che sorregge una candela accesa.

Per questa creazione l’artista ha preso ispirazione da un episodio del suo passato. Durante l’infanzia, infatti, egli ha vissuto per un periodo in un campo gipsy, dove aveva stretto amicizia con un uomo conosciuto per essere un rapinatore di tombe. In una conversazione, quest’uomo spiegò che i morti gli regalavano gioielli e altri oggetti preziosi (come l’oro della lingua dell’opera) per ringraziarlo di portarli fuori dalle tombe a prendere un po’ d’aria.

La candela, invece, proviene da una chiesa di Nola ed è un omaggio al filosofo Giordano Bruno (originario di questa città) e bruciato come eretico dalla chiesa a causa delle sue teorie.

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Jeremy Demester, Djemy (2021), Galleria Bianconi

Identità personale come mezzo espressivo

L’ultimo artista presente alla mostra è Monsieur Zohore, l’unico tra tutti a non essere nato in Africa, bensì negli USA, anche se di origini ivoriane.

La storia personale di Zohore e la sua identità si riflettono e influenzano in modo radicale le sue opere, così la sua storia diventa il principale mezzo espressivo.

“Essere uomo di colore queer fa parte della mia pratica. Penso che sia il mio rapporto con l’umorismo e la tristezza e la capacità di comprendere queste due idee, il mio rapporto con la Blackness e Frenchness, la mia Africanness, sia veramente il materiale da cui ho iniziato a costruire la mia pratica.”

Monsieur Zohore

In galleria è esposta White Boy Summer, opera appositamente realizzata per questa occasione, e che appartiene alla serie Paper Towel Works. In questi lavori l’artista utilizza materiali di uso domestico, come appunto la carta da cucina. Si tratta di un oggetto al contempo resistente e degradabile, facilmente scartabile, usa e getta. La carta diventa un potente strumento per raccontare le disuguaglianze socio-economiche e personali.

White Boy Summer è una critica a tutto un sistema culturale, sociale ed economico che ha permesso e permette agli uomini agli uomini bianchi di avere il pieno controllo del mondo, sfruttandolo come meglio credono a spese degli altri.

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Monsieur Zohore, White Boy Summer (2021), Galleria Bianconi

Una riflessione sulla contemporaneità

Tutte le opere, seppur in modi diversi, sono accumunate dalla volontà di sfidare o quantomeno mettere in discussione lo status quo. Attraverso un’analisi del presente, senza dimenticare il passato, sia nelle tradizioni positive sia negli aspetti negativi, si cerca di portare alla luce questioni problematiche e attuali, per immaginare e sperare in un futuro diverso e migliore.

E non è questa una delle funzioni principali dell’arte contemporanea? Evidenziare aspetti critici della società attuale, fornire nuove chiavi di lettura, aiutarci a mettere in discussione quello che pensiamo di sapere e costruire qualcosa di positivo?

Dopo la laurea in filosofia ho conseguito un master in Arts Management. Sono appassionata di arte, letteratura, teatro e culture non europee. Cerco sempre nuovi stimoli e avventure da intraprendere.