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Arte

Francesco Borromini: la leggerezza di un genio tormentato9 minuti di lettura

La storia di Francesco Borromini è legata a doppio filo a quello di un altro grande artista, che con lui si contendeva le grazie e le commissioni della nobiltà e del Papa nella Roma del Seicento: Gian Lorenzo Bernini.

La rivalità tra i due geni del barocco è tra le più celebri della storia dell’arte, conclusasi tragicamente il 2 agosto 1667 con il suicidio dell’artista di Bissone. Durante un eccesso d’ira, sfoderò una spada e si trafisse, morendo solo molte ore dopo.

Il carattere cupo e collerico di Borromini era in netto contrasto con le sue opere, capolavori di leggerezza e dinamismo che ancora oggi sconvolgono per la loro bellezza così audace chiunque si trovi a camminare per le strade di Roma.

Borromini a Roma: architetture senza peso

Francesco Castelli nasce nel 1599 a Bissone, sul lago di Lugano, ben lontano dalla Roma dei Papi in cui si svolgeranno le sue alterne fortune. La sua famiglia viveva e respirava la polvere della pietra e del marmo da secoli: la madre proveniva da una storica casata di architetti, mentre il padre era capomastro al servizio dei Visconti di Milano.

Già a nove anni il piccolo Francesco venne mandato dal padre nel cantiere più importante d’Italia: quello del Duomo di Milano, aperto nel lontano 1386 e concluso ufficialmente solo nel 1932. Qui Borromini imparerà l’arte dell’intaglio della pietra e comincerà ad affinare i primi rudimenti di architettura.

Nel 1619 abbandona Milano e a piedi si reca a Roma, dove sa che lo aspetteranno grandi fortune al servizio delle nobili famiglie cittadine e del committente per eccellenza: il Papa. Al fianco del famoso architetto Carlo Maderno, Francesco lavora ai grandi cantieri romani al fianco di un giovane brillante e già celebre in città: Gian Lorenzo Bernini, di un solo anno più grande di lui.

I due collaboreranno moltissimo insieme, diventando le giovani promesse dell’architettura romana. Bernini con la sua teatralità barocca, fatta di grandi slanci, forme espressive e sculture di impressionante realismo e patetismo, Borromini con un’audacia che sfida il cielo e la terra, con forme elicoidali, colonne tortili, soluzioni leggere mutuate dalla scultura e dall’architettura antica, ora al servizio del nuovo stile che va affermandosi nella Capitale: il Barocco.

Baldacchino di San Pietro, 1624-33, San Pietro in Vaticano, Roma

Questa corrente artistica fatta di forti contrasti di luci e ombre e forme contorte ed elaborate è perfetta per mostrare tutta l’abilità tecnica ed espressiva dei due ambiziosi architetti, che si affiancano nella più importante delle commissioni romane, il cantiere di San Pietro.

Qui Bernini e Borromini, rispettivamente di 21 e 20 anni, lavorarono al Baldacchino di San Pietro, la fastosa opera in bronzo da collocare sopra l’altare e la cripta della nuova basilica. Fu proprio lavorando al progetto voluto da Papa Urbano VIII Barberini che l’amicizia tra i due cominciò a incrinarsi.

Da un lato lo scontro comprensibile di vedute artistiche differenti, dall’altro il carattere ambizioso di Borromini si scontrava con la direzione dei lavori tenuta dal vecchio amico e con le nette differenze di salario e potere decisionale tra i due.

Di Borromini restano le intuizioni del ciborio, il coronamento del baldacchino detto “a schiena di delfino” per le delicate volute che si gettano sulla trabeazione sottostante, e le statue di angeli ai quattro lati dell’imponente costruzione. Con il Baldacchino di San Pietro si apriva la stagione dell’architettura barocca e dei suoi protagonisti.

Nel 1634 finalmente Borromini divenne architetto e poté lavorare alla sua prima opera indipendente: la chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, o San Carlino. A causa del pochissimo spazio a disposizione tra la strada e il convento già esistente, oltre al poco denaro a disposizione dei frati committenti, Borromini ricorse per la prima volta alle soluzioni architettoniche che diventeranno la sua “firma”.

San Carlo alle Quattro Fontane, 1635-1680, Roma

I materiali si fanno economici, con pietre bianche, intonaco e stucco a sostituire i costosi marmi e a regalare leggerezza e fastosità agli interni grazie alla tecnica. La chiesa e il chiostro si sviluppano su piante nuove, che giocano con i pieni e i vuoti, curvano e si adattano allo spazio per svilupparsi in altezza. La cupola si schiaccia e forma un’ellisse, mentre la facciata sembra ritirarsi come un’onda sul corpo centrale, con il dinamismo del concavo e del convesso che stupiranno tutta Roma.

Per ironia della sorte, il primo lavoro dell’artista fu anche il suo ultimo, dato che non vedrà mai completato il complesso, terminato da suo nipote Achille Landucci sui disegni dello zio.

Il riconoscimento nella Roma di Innocenzo X

Dopo aver completato l’oratorio di San Filippo Neri (pur continuamente osteggiato dai Frati Filippini che non apprezzavano il suo stile innovativo), Borromini realizzò quello che viene considerato il suo capolavoro: la chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza.

Lo spazio ridotto non spaventò l’artista, che forte dell’esperienza a San Carlino, realizzò un’opera incredibile per struttura e dinamismo, ispirandosi alle api, il simbolo della famiglia Barberini, da cui proveniva Papa Urbano VIII.

Una chiesa a pianta centrale si sviluppa come una stella a sei punte, con un complesso sistema di cellette, proprio come un alveare. La soluzione, così complessa su carta, si articola in modo armonico, sfruttando ancora una volta materiali semplici e leggeri, come lo stucco.

Il vero capolavoro però si trova all’esterno, con la meravigliosa cupola, coronata dalla lanterna a spirale, che per la sua bianchezza e la sua forma è stata soprannominata “ciuffo di panna”. Dal triangolo della Trinità si innalza direttamente la cupola, creando il cerchio perfetto di Dio. La spirale della lanterna invece è ispirata al Faro di Alessandria, indicando la chiesa come punto di riferimento per i fedeli erranti nel buio.

Sant’Ivo alla Sapienza, 1643-1662, Roma

La simbologia religiosa si mischia all’elemento tecnico per creare un vero e proprio capolavoro dell’architettura barocca e mondiale, all’interno di uno spazio ridottissimo e di difficile interpretazione.

Queste opere incredibili accrebbero la fama di Francesco Borromini e spianarono la sua carriera. La morte di Urbano VIII e l’arrivo di Papa Innocenzo X Pamphilj fecero dell’architetto ticinese l’artista di punta della Roma del Seicento. Ad affossare la carriera in ascesa del rivale Bernini, intanto la rovinosa demolizione dei due campanili progettati per San Pietro, riempitisi di crepe per difetti strutturali.

La stella di Borromini cominciò a brillare davvero, con tantissime commesse e lavori sempre più ambiziosi e con stanziamenti di denaro sempre maggiori. Residenze private, chiese, opere di utilità pubblica come fontane e piazze (purtroppo mai realizzate) arricchirono Roma della firma inconfondibile dell’artista: la facciata alternata tra concavo e convesso, come nella chiesa dei Re Magi, realizzata demolendo una cappella preesistente realizzata dal rivale Gian Lorenzo Bernini.

Il punto più alto della carriera di Borromini arrivò nel 1653, quando gli venne affidato il cantiere di Sant’Agnese in Agone, già cominciata da Girolamo Rainaldi nello spazio di Piazza Navona, da tempo sede di possedimenti della famiglia Pamphilj.

Sant’Agnese in Agone e la vicina Fontana dei Fiumi

Borromini straccia i progetti di una chiesa semplice e statica, incastrata tra i palazzi della piazza e sviluppa un progetto verticalizzato, che doni respiro alla costruzione e la faccia spiccare tra gli edifici. Torna di nuovo la facciata dinamica, con la parte centrale avanzata rispetto alle ali concave chiuse da due snelli campanili. La pianta è a croce greca, con bracci di lunghezza uguale. Gli interni sono ricchi di stucchi dorati e combinano quattro altari poi rimaneggiati nel corso dei secoli secondo le mode correnti.

A incantare sono però come sempre gli esterni, leggeri e dinamici. L’intervento di Borromini rispetta la grande cupola di Baratta e Rainaldi, valorizzandola attraverso la facciata, che sembra slanciarsi in avanti verso il fedele, abbracciandolo con le sue ali terminanti nei due campanili.

La rivalità tra Bernini e Borromini sembra acuirsi a causa della presenza proprio davanti alla chiesa della Fontana dei Fiumi, dove la leggenda ha voluto dare al gesto del fiume Rio della Plata, che alza il braccio verso la chiesa, l’espressione di spavento per il crollo imminente dell’edificio. Pur affascinante, la storia è solo una leggenda appunto, dato che la fontana è stata completata nel 1651, due anni prima dell’arrivo di Borromini al cantiere di Sant’Agnese.

Borromini decaduto: la fine di un genio

La seconda metà del Seicento si apriva con i migliori auspici per Francesco Borromini, fino al 1655, quando salì al soglio pontificio papa Alessandro VII Chigi, che non apprezzava i virtuosismi dell’artista e a lui preferì di nuovo Gian Lorenzo Bernini, che tornò a occuparsi del cantiere di San Pietro realizzando l’iconico colonnato.

Colonnato di San Pietro visto dalla Cupola del Vaticano

Il crollo delle sue fortune e l’ascesa del rivale fecero crollare Borromini in una forte depressione, che sfociava in crisi d’ira e scoppi di pianto improvvisi. A peggiorare le cose subentrò la forte insonnia che lo colpì nel 1667, rendendolo ancora più nervoso e irascibile. Un gesto irrilevante del suo servo (si dimenticò di accendere un lume al tramonto) lo gettò in una crisi più profonda del solito, al termine della quale estrasse una spada, la poggiò a terra e vi si gettò sopra, uccidendosi all’età di 68 anni. La sua paranoia lo portò a distruggere tutti i suoi disegni e progetti, gettandoli nel fuoco, per paura che i suoi nemici (o peggio, il suo rivale) se ne potessero appropriare.

Borromini, l’architetto del cielo e dell’aria creò nella sua mente ombre e nemici terribili, che lo gettarono nello sconforto e nel sospetto fino alla morte. Una rivalità, quella con Bernini, che non veniva vissuta allo stesso modo dal vecchio amico di gioventù, che pur con forte spirito di competizione stimava e osservava con interesse il lavoro del collega.

Nella sua arte Borromini esprimeva qualcosa che non riusciva a trasmettere nella sua sfera privata: l’assoluta libertà dagli schemi e la voglia di brillare come il bianco dei suoi stucchi al sole della Capitale.

Laureata in Arti, Patrimoni e Mercati nel 2019, scrive di arte, cinema e lifestyle da diversi anni per diverse testate online, tra cui Milano Weekend, Artslife e Trend Online. Nel 2021 fonda Art Shapes per dare voce a chiunque voglia esplorare tutte le forme dell'arte