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Cinema

Babylon: il tentativo di Chazelle di rendere vera la metafora11 minuti di lettura

A questo punto dell’anno, dopo le nomination agli Oscar, direi che Babylon possa essere la parola più digitata su qualunque motore di ricerca. 

Il film di Damien Chazelle tenta di proiettare sul grande schermo la magia e la fatiscenza degli anni ’20 di Hollywood, concentrandosi in quel limen tra muto e sonoro che ha davvero cambiato il mondo. 

Il problema però è che, sarà la scelta del cast o forse i paesaggi per niente sconfinati, o magari è colpa dei tentativi di easter eggs, o forse la sequenza del morso del serpente, ma le tre ore abbondanti sembrano più che altro un omaggio venuto male a “C’era una volta… a Hollywood!”.

La prima parte di Babylon è un sogno allucinato

La prima parte del film è un capolavoro, mentre lo guardavo pensavo “finalmente si torna al cinema”. 

Vi risparmio il mio commento sulla sequenza iniziale con l’elefante perché credo si commenti da sola, abbastanza gratuita e con una pessima resa in digitale del pachiderma, così come non mi soffermo sul vecchio ciccione e le sue fisime sulla pipì. 

Cominciamo dalla festa più Inn di tutta Hollywood. Si tratta di un party talmente in grande da far sembrare piccolo il Grande Gatsby! La camera passa attraverso gli invitati e le ballerine, accarezzando la loro pelle nuda con un coinvolgimento quasi da soggettiva. La stanza è piena di donne, di tutti i colori, di tutte le estrazioni sociali, donne nude, donne mezze nude, donne eleganti e raffinate, donne a 90, cameriere, ballerine direttamente da Rio de Janeiro. 

Tra chi balla e chi scopa al centro della pista, spicca una favolosa tromba jazz che da sola regge tutto il film. Ah, ovviamente la band è formata da afroamericani: nel carrozzone dei Freak non possono mancare!

Tutto sembra essere come deve essere, ognuno di loro è habitué in questo eccesso di nudità e droga, ognuno sa che deve finire così ed è tutto assordante, la musica come le storie, fino alla trance. 

I divi e le star: la nascita e il declino in meno di trenta minuti 

L’entrata in scena della nostra diva, Nellie LaRoy interpretata dalla sempre splendida Margot Robbie, è quella di una stella già caduta. Una specie di Crudelia DeMon con la sua macchina e la sua guida distratta, arriva sul vialetto distruggendo una colonna (poi mi spiegate cosa ci facesse in mezzo al vialetto una colonna, ok che è Babylon però). La sua immagine è completamente fuori contesto: i capelli sono vaporosi e frisé, una specie di lenzuolo rosso le cade addosso e non si capisce bene che forma abbia, gli occhi spalancati alla ricerca di qualcosa.

Nellie è una star, lo sa perché o nasci star oppure no, non lo poi diventare. Da per certo che il suo futuro sarà quello del cinema e si presenta alla festa come se anche gli altri lo sapessero. Ovviamente nessuno sa minimante chi sia, e la cosa peggiore è che a nessuno pare importare se non al tuttofare messicano che ovviamente è il più furbo di tutti, risolve tutti i guai e senza lui, che è l’ultimo arrivato, nessuno saprebbe come cavarsela. Chiamiamolo pure Figaro!

Manny la vede, rimane folgorato, finge di riconoscere la star Nellie LaRoy e così comincia la storia d’amore più scontata, patetica, triste e irrisolta della storia del cinema probabilmente. (Non parleremo nemmeno di questa perché per carità!)

Man mano che il fracasso va avanti, e la festa si spende tra cocaina, jazz e sesso sbattuto in faccia agli spettatori, la camera indugia su un litigio. Seduti in macchina una donna paiettata in preda alla rabbia e un uomo ispirato da un tutto sommato buon italiano, a un certo punto divorziano, lei se ne va e lui rimane alla festa perché in fondo chi se ne frega, fra due minuti ti stai facendo la cameriera su un balconcino senza nemmeno toglierti la camicia. Questo gentiluomo non è altri che Jack Conrad, il riuscitissimo personaggio interpretato da Brad Pitt che oltre ad avere una voce stupendamente profonda regge su di sé la poca credibilità del film. 

Una cosa divertente su di lui: somiglia paurosamente a Marlon Brando ne Il Padrino, non so se sia voluto oppure no.

Il set del muto

MAMMA MIA. Il set è l’esercizio di stile, il virtuosismo, l’eccesso meglio riuscito forse di tutta la filmografia di Chazelle. La musica è quella delle orchestre registrate dal vivo nel cinema muto. La sentiamo pure noi dirompente, assordante, confusionaria, come in una serata di improvvisazione, con i fiati sempre lì a dare il ritmo e reggere il montaggio. La camera da presa si muove energica da un set all’altro, gli operatori di macchina sono mille specchi che palesano il meccanismo metacinematografico. Truccatori, registi, assistenti. 

Stona un po’ la regista che seguirà, da qui in avanti, la carriera di Nellie. Fino a questo momento le donne che abbiamo visto erano suppellettili, stavano lì a fare ambientazione, l’unica protagonista insieme a LaRoy è stata Lady Fay che ci è stata presentata vestita da uomo cantando “My Girl’s Pussy”. Questa regista che arriva e si prende la scena comanda a bacchetta tutta la troupe e intimidisce anche noi sembra un po’ anacronistica.

Director of Photography Linus Sandgren and Olivia Hamilton as Ruth Adler on the set of Babylon from Paramount Pictures.

Aldilà della maestria registica, il momento sul set è anche quello un po’ più triste di questa prima parte. Anche qui, anche nel vivo del cinema, la Hollywood degli anni d’oro ci appare come un branco di gente maldestra che improvvisa scene di lotta come improvvisa scene d’amore. Un’industria approssimativa in cui chiunque arriva e fa quello che vuole e ottiene il successo, in cui una ragazza che mostra i capezzoli diventa la sta e un uomo alcolizzato ma belloccio siede sul trono dei potenti.

Ovviamente anche qui la situazione viene salvata dal tuttofare messicano, che non sono sicura se sia un tentativo venuto male di mostrare come i messicani siano svegli diventando più razzista di quanto potesse essere, o un’altra occasione per sottolineare quanto fossero incapaci in quella casa di produzione visto che l’unico a sapere cosa fare è il cameriere al suo primo giorno. 

INTERVALLO

Dopo l’intervallo il film si può buttare. Pessimo davvero. Non c’è niente che valga la pena tenere, solo la musica che trattandosi di Damien Chazelle un po’ la davamo per scontata. Il resto è un no categorico. 

Un breve accenno ai personaggi perché di base sono tutti un po’ accennati. Nella seconda parte diventa sempre più forte il sentimento di distacco che si prova per le loro storie, fondamentalmente non c’è nessun coinvolgimento, nessun sentimento né di pietà né di fastidio né tanto meno di approvazione: loro sono lì noi siamo qui. 

La sequenza della lotta con il serpente…voleva proprio fare Tarantino, voleva proprio riprendere la scena finale con il pittbull di C’era una volta… a Hollywood! E purtroppo, ma lo sapevamo già, non ce la fa. È proprio brutta quella sequenza, disordinata, inconcludente, esteticamente ridicola, finta, piena di cose impossibili tipo l’incidente di Jack dal quale esce indenne, e alla fine il salvataggio di Fay che ormai se la doveva limonare Nellie, non ce la faceva più a tenersela. Dai, ma per piacere. 

La sottotraccia di Sidney Palmer era davvero necessaria? O meglio, era davvero necessaria fatta in quel modo? L’ennesimo musicista nero costretto a fare la black face autodidatta e bravo solo a suonare? Dai, un minimo di scavo o di dignità poteva anche dargliela. 

Ma il peggio deve ancora venire.

La discesa agli inferi con il vampiro Maguire

A un certo punto doveva essere citato il gangester movie e il noir, doveva esserci un malavitoso che vuole uccidere qualcuno, doveva esserci un cattivo. 

Confesso che quando ho visto la faccia di Tobey Maguire mi sono messa a ridere. La sua interpretazione è eccezionale, McGuire riesce a esprimere al massimo la stravaganza del suo personaggio diventando inquietante e pauroso al limite della paura. Pallido con denti orribilmente gialli e gli occhi quasi fuori dalle orbite paonazze, lo vediamo applicarsi sul viso uno strato di cocaina così da assorbirla dalla pelle. Ricorda un po’ i Volturi di Twilight. 

Purtroppo Maguire decide di condurci nella selva oscura e non possiamo farci nulla. A parte il coccodrillo in una pessima CGI che, veramente, con tutti i soldi che hai usato ti potevi impegnare un po’ di più, se l’intento era mostrare come “al peggio non c’è mai fine in questa società di corrotti e censurati che il codice Hays ha creato” bè, non credo sia stato raggiunto. 

Al di là dei nani e dei mostri presenti nei vari livelli, tutto è estremamente finto e fuori contesto, sembra quasi posticcio. Come se fosse stato messo lì a caso per occupare tempo e far venir fuori un film lunghissimo. Tipo quando alle medie scrivi largo nei temi per prendere tutta la pagina. 

Domina il rosso, il sangue… Vuoi dirmi che stiamo andando all’inferno? Potevi fare di meglio, anche perché è così terribile e pericoloso che in mille contro due non riescono a prenderli. Ancora una volta, non dobbiamo dimenticare, hanno a che fare con il nostro super Manny quindi ci sta che alla fine vince lui. Se ci pensiamo un attimo, il sicario mandato a ucciderlo alla fine non lo uccide gli dice solo “sparisci da Los Angeles”, e alla fine lui va a New York e arrivederci Messico. Anche no.

La fine non è veramente la fine

Ci sono vari momenti in cui il film sarebbe potuto finire ma non lo ha fatto, ha preferito continuare fino al videosaggio terribile stile video del 18esimo. 

A un certo punto della sua vita Jack capisce che è finita. La  sua era è finita, il suo momento è passato. Si concede ancora un film brutto da realizzare perché va bene così, lo ha accettato. 

Un’altra festa, un party elegante e silenzioso, l’ennesima moglie, un ultimo drink e quattro chiacchiere con l’amica di sempre Lady Fay. Poi la scusa dei sigari. La macchina da presa segue Jack su per le scale, una bella mancia al facchino, e ancora su. Apriamo una porta, apriamo un’altra porta, Jack sparisce ma è ancora lì. Uno sparo. Sangue sul muro. La morte e l’amore non sono mai mostrati. Così Bazin è onorato, Aristotele è felice, sarebbe stato il finale perfetto. 

Ma no. 

Sidney Palmer ritorna nei jazz club con il suo complesso a suonare per “un pubblico meraviglioso” e parte una canzone e ancora la tromba si fa sognare, e ancora, e ancora, e intanto le immagini cambiano e vediamo finalmente la luce in fondo al tunnel. 

Ma no. 

Doveva finire tutto con Manny e con la sua famiglia messicana e con lui che torna sognante agli studios e con lui che va in un cinema e con lui che si addormenta e con lui che guarda allucinato lo schermo e vede passare le immagini della storia del cinema con spezzoni di film di successo fino ad Avatar (Avatar!), e con un richiamo alla pellicola e i colori che veramente sembra la riproduzione al computer di una lava lamp. Ma non è ancora finito. Ci dobbiamo anche beccare una specie di carrello sui volti degli spettatori al cinema, ovviamente multietnici e ovviamente tutte donne, con il dubbio che anche questa sia una pessima CGI.

Babilonia cade, te l’avevo detto 

Cantava qualcuno qualche anno fa, e in effetti cade davvero. 

Questo film è riuscito, è colossale, è felliniano. È un film vero e fuori dal nostro tempo. Il cast da sogno, le allusioni storiche e sociali puntualissime, la musica è magica. 

Allora perché non convince?

Ogni pellicola ha qualcosa che non va, il problema di Babylon è che le cose che non vanno, vanno proprio malissimo e riescono a rovinare quello che poteva effettivamente essere un capolavoro.

Il cinema resterà per sempre e un giorno queste immagini verranno viste da qualcuno che si ricorderà di Brad Pitt e di Margot Robbie e penserà che Chazelle era un folle e dirà “Ah ma certo, lui è quello di La La Land!”, e altri diranno che Tobey Maguire è un gigante, tanti si emozioneranno a pensare che “era veramente così”, oppure spereranno di capire quali sono gli spezzoni di cinema mostrati per andare a recuperare tutto. Perché alla fine della fiera, quando la festa è finita e l’elefante dorme bisogna che qualcuno rimetta a posto e lo farà a modo suo e sarà la rivoluzione come Il cantante di Jazz.

Per me Babylon è un bel 7 e mezzo.

Non lo diresti ma ho 26 anni. Sono siciliana e questo lo potresti dire dopo avermi sentita parlare! Vivo a Pavia dal 2016, qui ho fatto lettere e mi sono laureata e ora studio cinema, teatro e arte contemporanea alla magistrale. Ho scelto di scrivere quando ero piccola perché penso che a parlare sono bravi tutti e poi si sa: scripta manent. Sono la terza di quattro figli, ho due bellissimi cani e una piantina di aloe, mi piace leggere soprattutto in treno o nei cortili dell’università e ascoltare musica dalle mie cuffiette con il filo. Le tragedie greche a teatro sono un appuntamento fisso, come i thriller che guardo spesso coprendo gli occhi con le dita. Per le serie tv non c’è storia: bringe watching tutta la vita. Se dicessi che il mio quadro preferito è Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles, sarebbe troppo banale per questo scelgo Sogni di Vittorio Corcos.